L’importanza di chiamarsi Ali
Il più grande di tutti: Cassius Clay e la sua capacità di cambiare le cose, a partire dal nome.
Testo di Maria Cristina Magri, Illustrazione di Ivan Scotti.
75 anni fa nasceva a Louisville, nel Kentucky, Muhammad Ali.
È mancato nell’estate scorsa, da tempo afflitto dal Morbo di Parkinson, avversario implacabile anche per lui che era stato campione olimpionico dei mediomassimi ai Giochi di Roma nel 1960 e aveva fatto sue le cinture di tanti titoli mondiali.
Eppure Ali non si è fatto mettere al tappeto nemmeno dal Parkinson, e la sua vera anima – quella della farfalla che danzava irridente sui ring di mezzo mondo – è rimasta intatta fino all’ultimo.
Era stato battezzato Cassius Marcellus Clay Junjor: lo stesso nome del padre e del nonno, nato schiavo, chiamato così in onore di un politico e proprietario terriero abolizionista amico di Abraham Lincoln.
La sua era una famiglia modesta ma rispettabile e il piccolo Clay era un bambino bellissimo, vivace e chiacchierone. Non troppo bravo a scuola, ma pieno di carattere; a dodici anni gli rubarono la sua nuova bicicletta bianca e rossa. Lui prometteva di stendere a cazzotti il colpevole, lo disse anche al poliziotto cui raccontò il furto. Il poliziotto si chiamava Joe Martin, nel tempo libero dirigeva una palestra di boxe e chiese al ragazzino in lacrime per la rabbia se sapesse fare a pugni. Cassius disse di no ma che ci avrebbe provato lo stesso e Martin gli consigliò di fare un salto in palestra.
Quel ragazzino capì presto che la boxe era l’unico modo per emanciparsi dal solito destino dei neri; per farlo si impegnò a fondo: a 12 anni Cassius si allenava con la serietà di un adulto e non sgarrava mai dalle regole di sobrietà che si era dato.
Le sue doti migliori erano quelle caratteriali: freddo, in combattimento non perdeva mai la testa e aveva una capacità incredibile di osservazione e reazione. Con l’allenamento si costruì un fisico perfetto, era un magnifico atleta anche dal punto di vista estetico; sviluppò una tecnica che non piaceva ai puristi del pugilato classico ma era terribilmente efficace, diversa da tutto quello che si era mai visto su un ring sino ad allora. Perché Cassius era veloce e leggero come una farfalla: durante i combattimenti teneva le mani basse ai fianchi e la testa alta sottraendosi ai colpi con fare irridente, ballava all’indietro, schivava e mandava in bestia gli avversari che non riuscivano a centrarlo. Guardando i filmati dei suoi migliori incontri sembra di vedere un matador che provoca con cinica eleganza la potenza di un toro ottuso, che non capisce come convincere quell’affare
saltellante a tornare coi piedi per terra e a starsene un po’ fermo a prendere finalmente qualche onesto pugno. Solo dopo cominciava a colpire: freddo, misurato, preciso con i suoi jab acuti e pungenti, mai furiosi, solamente veloci in modo micidiale. Cassius Clay pensava e programmava anche la tattica psicologica da usare contro i suoi avversari.
In un mondo che sembrava aver condannato i pugili di colore a ruolo di marionette da macello nelle mani dei truffatori, lui era l’artefice di sé stesso, non altri. Cambiò anche il suo nome e divenne Muhammad Ali dopo essersi ufficialmente convertito all’Islam. Perché Cassius Clay era un nome da schiavo, diceva Ali, che aveva trovato nella discutibilissima associazione Nation of Islam qualcosa che finalmente cercava di ridare l’orgoglio ai neri d’America. Nonostante questa ingenuità politica continuò ad usare le sue armi migliori, nella vita come sul ring: levità e ironia, assenza di cattiveria verso gli avversari. Rimase sempre una persona amabile che voleva essere felice ed aiutare quelli come lui cambiando il mondo, in meglio: grazie al suo esempio, strade mai percorse da una persona di colore furono aperte da lui con il suo studiatissimo chiasso da ufficio stampa e con il carisma di una personalità del tutto genuina. Il coraggio e la forza interiore che gli fecero dire no al Vietnam, a costo del titolo mondiale, lo hanno sostenuto durante gli anni del declino.
E forse era più forte il Muhammed Ali, tedoforo tremante ai Giochi di Atlanta, del giovane Cassius Clay danzante sul ring di Miami nel 1964.