Esposizione, un atto creativo.
Nell’atto di scattare una fotografia, quante volte abbiamo avuto a che fare con il problema dell’esposizione? Esattamente ogni volta, per ogni singolo scatto, anche se nella maggior parte dei casi abbiamo lasciato che il problema lo risolvesse l’automatismo del nostro dispositivo.
Le moderne macchine fotografiche, a partire dalla più economica punta e scatta, fino alla reflex più tecnologica e costosa, dispongono infatti di un esposimetro interno e di sofisticati automatismi che servono a determinare in maniera autonoma la “corretta esposizione”.
Ma cosa significa questa espressione? Come e quando possiamo definire corretta un’esposizione?
«L’esposizione si può definire corretta quando si riesce ad ottenere il maggior dettaglio senza bruciare le alte luci e senza chiudere completamente le ombre», risponderanno i più diligenti.
Questo è vero solo in parte, perché io aggiungerei una seconda considerazione, di fianco a quella sopra citata, ovvero che l’esposizione non è una misurazione, ma un atto creativo.
Nel momento in cui decidiamo di scattare una fotografia, lo facciamo per indicare qualcosa, per mettere in evidenza un aspetto della realtà nella quale siamo immersi, per ricavarne un messaggio, una testimonianza.
Anche se per molti anni la fotografia è stata considerata la più concreta delle arti, in realtà è una forma subliminale di astrazione (dal latino abs traehre, ovvero tirare fuori).
La fotografia estrae, tira fuori un pezzo di realtà dal mondo che ci circonda per trasferirlo in un ambito mentale, che non ha molto a che vedere con il reale, se non con l’idea che noi ce ne siamo fatti.
E quindi per quale motivo dovremmo lasciare ad un automatismo il compito di calcolare la corretta esposizione?
Nella maggior parte dei casi il sistema di esposizione automatica predefinito si basa su una misurazione valutativa che – senza voler entrare adesso in un discorso troppo tecnico – calcola una media dei valori della scena inquadrata per ottenere un’esposizione che porti alla creazione di una fotografia il più possibile corretta, ovvero simile alla realtà che abbiamo inquadrato.
Ma allora perché molte volte l’automatismo delle nostre macchine genera delle immagini sovra esposte o troppo buie?
Perché, anche se negli anni sono stati compiuti molti progressi in questo campo, la misurazione automatica rimane pur sempre un compromesso, ovvero una valutazione media (ponderata) della scena, sulla base di valori astratti.
Un po’ come dire che se un uomo riposasse con la testa nel forno e i piedi nel frigorifero, starebbe benissimo!
A parte le battute, l’esposizione automatica è in grado il più delle volte di fornirci una foto abbastanza corretta, intesa come coerente con la realtà, a meno che non ci si trovi in situazioni di forte contrasto, come un controluce o una scena complessivamente molto scura, con delle parti in piena luce.
Premesso che sono stati scritti interi libri sull’esposizione fotografica, sui tempi di scatto, la sensibilità ISO, la profondità di campo, l’esposizione creativa in low-key e high-key e via discorrendo, questo articolo non ha la pretesa di affrontare l’argomento dal punto di vista tecnico, ma cerca soltanto di suggerire una riflessione, ovvero se e quando si può parlare di esposizione corretta.
Dato per scontato che lo scopo principale della fotografia non è quello di riprodurre esattamente la realtà, se non in casi particolari come quello della fotografia forense o di tipo didascalico, quello che dovremmo domandarci ogni qual volta ci apprestiamo a scattare una foto è: “cosa voglio comunicare?”
Rispondendo a questa domanda, le scelte successive saranno più semplici.
Ciò che ha determinato l’enorme successo della fotografia, che al giorno d’oggi invade la vita di tutti noi, non è la sua capacità di riprodurre la realtà, bensì quello di evocarla.
Il potere evocativo delle fotografia è la vera magia di ogni immagine ben riuscita. La capacità di indicare qualcosa che sfugge ad uno sguardo distratto, di fermare il momento e riproporlo all’infinito, svuotato del suo significato e caricato di simboli e contenuti, che fanno parte della sensibilità dell’autore, ma anche degli archetipi culturali di un’intera civiltà.
E quindi, sulla base di un ragionamento di questo tipo, quale può essere il modo di determinare una corretta esposizione? Semplicemente quello che porta ad un risultato coerente con le intenzioni dell’autore.
Non sarà dunque una formula matematica a decidere se la foto è corretta, bensì la capacità della foto stessa di esprimere con coerenza quelle che erano le intenzioni originarie dell’autore.
E attenzione, non fraintendetemi, non voglio aprire in questo modo le porte ad un filone di produzioni facilmente “artistiche”, dove ogni strafalcione è concesso in nome di una presunta vena artistica, tutt’altro, di cialtroni ce sono già abbastanza in giro e non hanno bisogno di essere incoraggiati.
Il mio messaggio è semplice e diretto: decidere cosa si vuole raccontare e scegliere le modalità più efficaci per farlo, in maniera che il messaggio sia chiaro e potente.
Tutto il resto è noia.
Ivan Scotti